PER LE VIE DELLA PALESTINA

“Nokia-connecting
people” è una delle prime cose che ho visto guardando fuori
da una finestra dall’aeroporto di Ben Gurion appena arrivata in
Israele, scritta su un prato, ma nel giro di qualche giorno mi sono
resa conto di quanto è aberrante la situazione, visto che da
una scheda israeliana non posso inviare un sms ad una palestinese.

E non è così
strano, perché a parte i check point
non c’è molta opportunità di conoscersi: scuole,
autobus, strade, luoghi sacri e tutto il resto è militarmente
diviso, così si condivide un territorio di poco più
grande della Sicilia ma non ci si conosce, si parla gli uni degli
altri per sentito dire, al massimo per luoghi comuni o per le azioni
di forza che ci sono, da un lato e dall’altro.

Dopo qualche giorno a
Gerusalemme mi rendo conto che bastano 10 minuti per passare dalla
città vecchia a est a quella ad ovest perfettamente
assimilabile ad una città degli Stati Uniti.

La città Santa
sembra divisa da un muro invisibile in due parti distinte e separate
come in realtà lo sono questi due popoli. Le colpe stanno da
una parte e dall’altra.

E poi c’è il
muro,così come te lo aspetti alto e grigio, ma quello che non
ti aspetti è l’angoscia che trasmette questo serpente che si
snoda a tratti tra campi incolti e a tratti pieni di ulivo . E poi
sulla collina ingloba una parte di terra perfetta per creare una
ridente colonia fatta di casette a schiera tutte uguali con allegri
tetti rossi…inquietante.

Cammini per le strade di
Gerusalemme e vedi gli israeliani, che dai 17 ai 21 anni fanno il
sevizio militare, armati di tutto punto da soli o in branco che
presiedono una delle porte di ingresso alla Città vecchia o
che vagano in cerca di chissà chi.

E poi ci sono i
palestinesi famosi perché ogni tanto hanno il vizio di
esplodere.

Ma l’angoscia da
sicurezza tanto in voga di questi tempi svanisce perché
comunque i bambini giocano per strada, le donne vanno al mercato, i
turisti giapponesi fanno le foto e i pellegrini cercano risposte.
Tutto sembra scorrere normalmente, ma di normalità c’è
né davvero poca.

Si è in uno stato
di guerra perenne, in qui il quotidiano è costruito per creare
assuefazione a situazioni talmente assurde che somministrate un po’
alla volta entrano nella routine e diventano pezzi di vita

Aspettare sette ore in un
check point in attesa che i 3 ragazzini di turno trovino qualcosa di
meglio da fare non può essere parte di una quotidianità,o
attraversare strade di campagna per 70km per arrivare in un posto,
perfettamente collegato con una nuovissima strada, che disto 30km non
è concepibile. Ma qui succede anche che un giorno il governo
israeliano si accorge che la tua casa è proprio in una zona
archeologica o in zona militare e semplicemente l’abbatte,senza
troppe spiegazioni, con un preavviso di poche decine di minuti. E non
è raro vedere anziani che portano vecchie chiavi arrugginite
al collo.

E poi ne vogliamo parlare
di tutta questa serie infinita di internazionali che orbitano intorno
al caso Palestina?dei pazzi o cosa? coraggiosi o incoscienti? ma non
sarà mica che la cooperazione è funzionale
all’occupazione? Non c’è dubbio che da la possibilità
al governo israeliano di non porsi troppo il problema sulle
conseguenze del suo operato: togli l’acqua e comunque qualcuno
troverà il mondo che non muoiano, affama il villaggio e
qualcuno arriverà a portare qualcosa, intanto la popolazione
rimane soggiogata, quieta e quiescente.

In generale tutti ti
chiedono cosa ne pensi della situazione, hanno storie da raccontare e
rabbia da contagiare, ma il bisogno di normalità assopisce il
resto.

Conosco tante persone,
tante storie ma c’è anche chi di questa situazione non ne
vuole parlare, che della guerra e dell’occupazione neanche ne
vuole sentire, lui queste cose ce le ha negli occhi, azzurri come
quelli di molti palestinesi. Ma noi siamo qui anche e soprattutto per
conoscere e per sapere. Lui finirà la scuola e poi andrà
via, forse in Italia o forse in Inghilterra, del resto ha gia un paio
di fratelli in giro per il mondo.

Tutti sognano di andare
via, ognuno ha le sue ragioni…c’è chi vuole andare in
Messico perché lo ha visto nelle telenovele, ma quasi nessuno
è mai stato ad Al-Quods, Gerusalemme, il centro del mondo in
cui tutto ha avuto inizio e forse avrà anche fine.

Mi chiedo se è
tutto come me lo aspettavo? No. L’idea che il conflitto venga
normalizzato tramite la routine e cosi si perpetua mischiandosi alla
quotidianità delle azioni mi fa rabbia. Ma cosa mi aspettavo
da un popolo in lotta da 40 anni ad armi impari che perde pezzi
(letteralmente) ad ogni scontro?Non lo so, ma di sicuro non che si
possa abbassare la testa, questo no.

Giovanna Messina

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