BIRMANIA UNA CRISI INFINITA

Come
sempre l’informazione italiana (perlomeno quella televisiva) è
abile a riportare notizie dal Sud del mondo solo nel momento in cui
l’argomento trattato è oggetto di scandalo internazionale.
Passa qualche giorno e la preoccupazione generale dei mass media
diminuisce, fino a scomparire del tutto. Sembra che tutto sia
tornato come prima, che il problema sia stato risolto, ma purtroppo
non è così. E’ il caso della Birmania, guardata con
grande apprensione durante la rivolta pacifica iniziata nel settembre
2007 e poi dimenticata per far spazio a notizie più fresche e
meno inquietanti. Facciamo un breve riassunto di come il popolo
birmano è stato sottomesso negli ultimi 50 anni.

Il concetto
di “democrazia” in Birmania non esiste più dal 1962, anno
del primo colpo di stato capeggiato dal Generale Ne Win. Prima di
allora, in seguito all’indipendenza, la presunta condizione di
tranquillità che si stava creando in Birmania fu compromessa
dalle rivendicazioni armate della guerriglia formata dalle minoranze
etniche (
kachin,
karen
e
mon),
prontamente
repressa dal governo centrale
.
Per 26 anni il regime di Ne Win dominò incontrastato il paese,
portandolo al collasso sociale ed economico . L’8 agosto del 1988
però un grosso movimento popolare composto di monaci, studenti
e altri civili riuscì a destabilizzare il regime ventennale di
Ne Win, costringendolo alle dimissioni. Durante la famosa “rivolta
8888” il popolo birmano pagò purtroppo con un numero
elevatissimo di perdite umane questa voglia di cambiare. I tumulti
dell’88 hanno comunque lasciato un segno durevole nella gente. Fu
proprio in quella occasione che emerse la figura più
rappresentativa della battaglia per la democrazia del popolo birmano:
Aung San Suu Kyi. La speranza birmana era da lei simboleggiata. Nel
1990 si tennero le prime elezioni libere nel paese, e il risultato
ufficiale lasciava ben sperare: quasi l’80% dei voti per il partito
della San Suu Kyi (NLD). Tuttavia il voto popolare fu dichiarato
nullo dallo SLORC (Consiglio di restaurazione della legge e
dell’ordine di stato) e fu lasciato campo libero all’ascesa del
nuovo dittatore Than Shwe. Quest’ultimo è tuttora a capo
dell’organo di governo birmano, rinominato quasi per un cinico
gioco di significati “Consiglio di stato per la pace e lo
sviluppo”. Aung San Suu Kyi vive dal ‘92 un decennio dettato da
arresti ingiustificati e temporanee scarcerazioni. Ci avviciniamo ai
nostri giorni. E qui sorge un dubbio: sappiamo davvero com’è
andata la rivolta del settembre scorso? Facciamo il punto della
situazione. Tutto è iniziato con una pacifica protesta contro
l’eccessivo prezzo della benzina, con in prima linea i monaci
buddisti . Solo dopo la repressione armata del regime la protesta si
è trasformata in dura contestazione nei confronti del governo
di Than Shwe. Il sentimento comune del popolo birmano si è
manifestato con una naturalezza disarmante; questa nuova protesta
sembrava inevitabile. Ci sono molti aspetti della rivolta che i
giornali italiani non ci hanno mostrato: reclutamenti forzati di
bambini tra le file dell’esercito, dietro minaccia di arresto ai
familiari; torture perpetuate (e mai menzionate) ai danni dei monaci;
ma anche spaccature all’interno dell’esercito, con intere
divisioni che sono passate dalla parte del popolo o generali che non
danno seguito all’ordine di sparare. Le reazioni dei leader delle
grandi potenze mondiali sull’accaduto non sono state
particolarmente esaustive. Cina e Russia in sede di Consiglio di
Sicurezza hanno posto subito il veto sulla possibilità di
trovare una soluzione comune, sostenendo che erano affari interni
alla Birmania. In realtà, entrambi gli stati sarebbero stati
colpiti indirettamente da un’eventuale sanzione economica imposta
alla Birmania, visto che intrattengono forti relazioni economiche col
paese in questione. Ancora una volta
gli interessi economici delle
superpotenze prevalgono sui reali bisogni del popolo, costretto a
sopportare, senza il supporto dei potenti del mondo, i soprusi
dell’esercito. Anche se gli scontri non sono così violenti
come quelli di settembre, l’esercito continua nella sua opera di
repressione. Le speranze per una risoluzione della crisi permangono,
anche se le ultime notizie non sono così confortanti. Aung San
Suu Kyi (tuttora agli arresti domiciliari) ha goduto della
possibilità di incontrare i membri del suo partito, e si è
ritenuta profondamente insoddisfatta dell’operato della giunta
militare, accusata di aver continuato ad arrestare i dissidenti anche
dopo le consistenti pressioni internazionali (ad opera della società
civile, non certo dei governi…). Le ultime parole della San Suu Kyi
fanno riflettere: ”bisogna sperare al meglio e prepararsi al
peggio”. Ciò implica uno sforzo ancora più
consistente della società civile; soprattutto manteniamo
sempre vivo il nostro interesse verso ciò che accade
giornalmente in Birmania. Non dimentichiamocene, commetteremmo un
grosso sbaglio.


Fabrizio Cacciatore

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